Il campaigning oggi funziona ancora? Riesce a coinvolgere e ingaggiare le persone e innescare processi di cambiamento?

Giulio Sensi
Nessun elenco a sette punti su quello che si deve fare, ma un’analisi di quello che è accaduto negli ultimi venti anni e di quella che è la situazione oggi. Ne parliamo con Giulio Sensi, che su questo tema è testimone e attore protagonista degli ultimi due decenni.
Giornalista, comunicatore e formatore, lavora ormai da 15 anni a stretto contatto con il non profit. Prima ancora, dai tempi dell’università è stato attivista in Mani Tese. Dirige la rivista Volontariato Oggi, edita dal Centro Nazionale per il Volontariato e scrive per VolontariatOggi.info. Collabora con numerose testate giornalistiche.
Giulio, facciamo partire questa analisi dal 1999, quando a Seattle in occasione della terza conferenza dell’Organizzazione mondiale per il commercio convocata per avviare il Millenium round, partì la più grande protesta mai messa in atto, sia per numero di partecipanti che per durata. Chi ha dato il LA a questa mobilitazione?
Quella del 1999 fu una mobilitazione mondiale che mise insieme reazioni anche molto diverse ad un fenomeno, la globalizzazione, che iniziava ad essere percepito come un pericolo mortale per il pianeta da tutti i punti di vista. La reazione fu di sfida e di controproposta. Si capiva che ad un sistema globale basato su meccanismi profondamente ingiusti occorreva contrapporre una risposta basata su alleanze globali della società civile.
Intorno al 2000 ci furono sia in Italia sia nel mondo delle campagne di mobilitazione molto efficaci che riuscirono non solo a cambiare la percezione dell’opinione pubblica rispetto ad alcuni temi, ma anche a ottenere risultati concreti. Penso alle campagne del Centro Nuovo Modello di Sviluppo sul consumo critico o alla grandissima mobilitazione contro l’indebitamento ingiusto dei paesi del Sud del Mondo o per la tassazione delle transazioni finanziarie internazionali. I protagonisti erano sempre i soggetti maggiormente colpiti dalle regole economiche ingiuste e c’era un legame diretto fra le vittime e le risposte.
Dopo Seattle questo movimento è cresciuto. Nel 2001 è nato il World Social Forum, c’è stato il G8 di Genova. Un crescendo di iniziative. Come venivano ingaggiate le persone e quanto incidevano queste mobilitazioni sulle scelte dei decisori politici?
Le persone venivano ingaggiate in molti modi: i giovani, che erano molti, si interessavano direttamente e si proponevano anche per curiosità e per prendere in mano un pezzetto del proprio futuro, ma questo movimento veniva da lontano e una delle sue radici fondamentali era quello che veniva definito “terzomondismo”: non era altro che l’emersione di un lavoro di decenni di aiuto e sensibilizzazione verso il “sud del mondo” che diventava un tema politico rilevante.
Il movimento era molto forte pur con limiti e contraddizioni, ma la risposta della politica scarsa: ci sono voluti molti anni per fare in modo che la voce della cosiddetta società civile venisse ascoltata.
Ma la politica nazionale è sempre stata in difficoltà ad ascoltare la voce del movimento per un’altra globalizzazione: le sue richieste erano molto ampie e mettevano in gioco scelte da prendere come comunità internazionale e non solo come stati sovrani.
Oggi credo sia tutto diverso. Ci sono paradossalmente più possibilità di comunicare a livello mondiale. Ma è vero che ingaggiare le persone ora risulta più difficile. E’ vera come affermazione?
È sicuramente vera e quel movimento si è conquistato anche più ascolto e credibilità. Solo che non esiste più come movimento definibile, a patto che lo sia mai stato, ma è frazionato in tante micro-voci.
Io credo che, a 20 anni dalle prime mobilitazioni, sia emerso chiaramente come la risposta alle sfide globali non sia più politicamente unita da una visione alternativa e globale, bensì abbia lasciato il campo a fermenti di chiusura, chiamiamoli sovranisti ma è una semplificazione, e di rifiuto.
Il nostro movimento era aperto e inclusivo, si basava su ideali di solidarietà e fratellanza. Oggi questi valori esistono ancora, ma sono ancora più minoritari. Prevale la paura rispetto alla speranza.
Se 20 anni fa avessimo avuto i mezzi digitali di oggi, quel movimento avrebbe inciso ancora di più. Ma è una affermazione che lascia il tempo che trova. Oggi i social media vengono utilizzati in molti modi e la manifestazione più visibile è quella di ostilità anche perché è quella più diffusa e visibile. È la cassa di espansione di un sentimento purtroppo molto forte che non è adeguatamente controbilanciato da visioni positive.
Alla fine, oggi ha senso parlare ancora di campaigning? Come è cambiato il modo di coinvolgere e sensibilizzare l’opinione pubblica e il modo di fare advocacy sui decisori politici?
Oggi le campagne hanno solitamente un respiro molto meno ampio rispetto al passato, ma spesso sono in grado di incidere più su cause specifiche.
Raramente si incontrano campagne capaci di unire molti mondi e quando ci sono fanno presa più sull’emotività del momento che sulla costruzione di proposte e soluzioni. Credo sia un limite comprensibile. Ci sono più strumenti e anche il costo delle campagne stesse è più accessibile. Questo porta come conseguenza il proliferare di problemi e soluzioni che in parte confondono un’opinione pubblica bombardata da richieste di indignazione su cui fa fatica ad essere coinvolta.
Occorre però guardare al lato positivo della vicenda: oggi è possibile svolgere un ruolo di advocacy più incisivo a patto di superare il settorialismo e di essere capaci di alleanze che le organizzazioni della società civile dovrebbero tessere per fare in modo che le campagne siano più costruttive e meno superficiali. E che ci sia anche uno sforzo di verifica dell’impatto delle campagne e anche di restituzione alle persone coinvolte che molto spesso aderiscono senza avere un successivo riscontro sugli effetti della propria mobilitazione.
Anzi, la campagna, che è un contenitore che può contenere molte cose anche diverse fra loro, è uno strumento utile e potente perché definisce bene gli obiettivi, permette la partecipazione e dà quella continuità di messaggio fondamentale per riuscire, appunto, ad incidere.