Negli anni passati abbiamo guardato agli Stati Uniti come al laboratorio avanzato delle politiche DEI – Diversità, Equità, Inclusione. Ce lo ricordiamo bene: aziende come Google, Amazon, McKinsey, università prestigiose e amministrazioni pubbliche facevano a gara a chi mostrava il più forte impegno per creare ambienti di lavoro equi, inclusivi, rappresentativi.
Era una rivoluzione culturale, sociale, perfino economica. Una nuova bussola etica e valoriale sembrava orientare le strategie delle grandi organizzazioni. E ammettiamolo: in molti di noi, anche qui in Italia e in Europa, è nato un moto di speranza. La convinzione, forse ingenua, che certi valori fossero diventati strutturali. Acquisiti. Non reversibili.
E invece…
Oggi, quella speranza è sotto attacco. E non da qualche frangia estremista o da piccoli gruppi di opposizione. No. A disfare il tessuto DEI sono proprio quelle stesse aziende e istituzioni che pochi anni fa ne erano paladine.
Cosa sta succedendo in America?
Prendiamo il caso di Google, che ha silenziosamente ridimensionato il suo team DEI, o McKinsey, che ha smantellato la sua “Inclusion Transformation Unit” appena due anni dopo averla annunciata con grande enfasi. O ancora Tesla, che non ha mai davvero preso posizione su questi temi, e oggi – nel silenzio generale – cavalca un vento nuovo, molto meno inclusivo.
Ma non è solo una questione aziendale. È un segnale culturale. Una parte sempre più ampia della società americana sta rigettando le politiche DEI, le considera un “grande inganno”, come titola un recente e discusso articolo dell’Huffington Post Italia.
Il punto è che non è solo un ripensamento strategico. È una ritirata. Una vera e propria retromarcia ideologica.
Perché sta succedendo tutto questo?
Le ragioni sono tante, alcune anche legittime da discutere: la paura della cosiddetta “discriminazione al contrario”, l’ansia da polarizzazione politica, il sospetto che DEI sia diventata una moda più che un cambiamento reale. Ma il problema non è che si discuta di DEI. Il problema è l’abbandono del confronto, l’abdicazione ai principi, la scelta di disinvestire da ciò che fino a ieri si diceva essere fondamentale.
E a noi, nel Terzo Settore, questo deve interessare. Eccome se deve.
Dove finisce l’inclusione quando diventa scomoda?
La domanda vera è questa: le politiche di inclusione valgono solo quando vanno di moda? O siamo disposti a difenderle anche quando diventano impopolari?
La verità è che DEI non è una bandierina da sventolare nei comunicati stampa, ma una lente per leggere il mondo. Un approccio strutturale per ridurre disuguaglianze, valorizzare le differenze, migliorare convivenze, aziende, scuole, città. Tutto.
E sì, può essere faticoso. Può creare resistenze. Può anche sbagliare strada. Ma se la risposta è smettere di provarci, allora il problema non è DEI. Il problema è la nostra paura del cambiamento.
Dobbiamo decidere da che parte stare
Tutti noi — cittadini, istituzioni, imprese, media, organizzazioni — abbiamo davanti un bivio. Possiamo seguire l’onda lunga della ritirata americana, o possiamo decidere che certi valori non sono negoziabili.
Possiamo dire: “Noi crediamo nella giustizia sociale. Noi crediamo nel potenziale delle persone. Noi non rinunciamo a costruire comunità inclusive solo perché ora è più difficile.”
Non è un discorso solo per il non profit. È un discorso per chiunque abbia a cuore il futuro di una società aperta, giusta, viva.
Ecco perché non possiamo restare a guardare
Quando Google taglia, quando McKinsey arretra, quando un’università cancella un corso DEI, non sta solo cambiando una policy aziendale.
Sta cambiando l’immaginario collettivo. Sta cambiando ciò che riteniamo “giusto”, ciò che insegniamo, ciò che premiamo.
E se non ci opponiamo oggi, domani sarà più difficile anche solo parlarne.