Intervista a Paolo Ferrara, responsabile Comunicazione e Raccolta Fondi di Terre des Hommes Italia

Sulla scia del Convegno che si è tenuto lo scorso 28 febbraio presso l’Università Bocconi per approfondire le tematiche legate alle partnership tra imprese profit e organizzazioni non profit, abbiamo deciso di proporre in esclusiva per il nostro blog un’intervista a Paolo Ferrara, responsabile della Comunicazione e del Fundraising presso Terre des Hommes Italia – a cura di Giulia Musso.

 

Quali sono, a tuo parere, le motivazioni principali che spingono un’azienda profit a voler collaborare con una non profit?

La prima risposta è legata al brand, quindi alla capacità della collaborazione di creare valore per l’azienda, valore sia in termini di reputazione sul mercato sia in termini di reputazione interna, quindi rapporto con dipendenti e fornitori e con gli altri stakeholder dell’organizzazione. Questo mi sembra che sia sempre di più l’elemento qualificante per le grandi organizzazioni.

La seconda è sicuramente il passaparola e la capacità dell’organizzazione di creare attorno a sé una rete di relazioni che facilitino l’arrivo di nuove aziende.

Quali sono le forze e le debolezze del corporate fundraising? Quali sono i vantaggi? E quali le criticità o i principali problemi riscontrati? Perché spingerlo o meno rispetto ad altre forme di raccolta fondi?

Il corporate può essere la chiave decisiva di sviluppo di un’organizzazione, ammesso che la capacità relazionale di questa, ossia la sua abilità nel «creare rete», sia tale da assicurare con costanza l’arrivo di nuove aziende e la loro fidelizzazione. Se l’organizzazione si dimostra poi abbastanza accogliente e riesce a innescare un processo di apprendimento dalla relazione stessa, giocando in prima battuta ai livelli più alti – questa considerazione vale anche per le aziende -, ciò si dimostrerà strumentalmente utile, sia perché la quota di donazione media è normalmente molto alta, sia perché queste relazioni, se ben comunicate, sono in grado di generare un effetto moltiplicatore. Ciononostante, rimane vero che le donazioni aziendali, proprio perché hanno importi più elevati, soprattutto quando sono one shot e non fidelizzate, possono essere anche molto rischiose e destabilizzanti per un’organizzazione, soprattutto se di medio e/o piccolo livello. Difatti, per queste ultime, essere abbandonati da due o tre partner aziendali importanti significa vedersi messa in ginocchio la propria capacità progettuale. Credo che il corporate vada spinto, in maniera sempre più innovativa e con costanza. Ritengo per altri versi che l’organizzazione debba avere la capacità di non legarsi a un’unica fonte di entrata – che sia un’azienda o che sia un’istituzione pubblica – ma debba soprattutto coltivare la propria capacità di stare autonomamente sul mercato aggregando sempre più donatori privati – più piccoli – e sempre più posizionandosi tra l’opinione pubblica con una forte identità. Il rischio a volte è che le organizzazioni si concentrino soltanto su un aspetto come quello della raccolta fondi corporate: per qualche anno può andare anche bene, ma il rischio è di diventare troppo dipendenti da donazioni di questo tipo.

Quali sono le strategie che hai adottato nel corporate fundraising? Si sono evolute negli anni? Come pensi di svilupparlo nei prossimi anni?

È cambiato il mondo delle aziende e la relazione con esse. Fino a qualche anno fa, per un’organizzazione meno conosciuta era più semplice arrivare a delle donazioni su progetto. Oggi, invece, il mercato è molto più competitivo e in mancanza di risorse le aziende tendono a chiedere in cambio servizi o una forte credibilità e quindi a pretendere dalle organizzazioni non profit o una significativa reputation o una grande visibilità. Inoltre, ancora qualche anno fa, la scelta era più legata alla semplice beneficenza, e, sebbene sulle grosse cifre influisse necessariamente l’Amministratore Delegato o il Presidente, in realtà lo staff e i dipendenti potevano incidere molto più rispetto a oggi. Oggigiorno, invece, credo che il lavoro principale che un’organizzazione debba fare, oltre a quello di creare una rete sempre più ampia di contatti che passi soprattutto dalla governance – quindi dal board -, sia quello di posizionarsi in maniera molto chiara sul mercato, essendo sempre riconoscibile, possibilmente cercando di essere leader su una nicchia almeno di mercato. Non solo. All’azienda, in cambio, bisogna saper offrire una reputation molto forte, quindi essere molto affidabili e credibili in quello che si fa, con competenze elevate. Terzo aspetto: è anche necessario essere in grado di garantire una serie di servizi, valorizzandoli in termini economici – legandosi meno ai progetti e più alla mission e al brand. Tuttavia, questo richiede un cambiamento delle organizzazioni in toto – non soltanto, quindi, del Dipartimento Corporate. Anzi, strategicamente oggi credo che sia sempre meno sensato avere un dipartimento di per sé Corporate o addirittura Fundraising, ma che si dovrebbe ragionare solo in termini di “sviluppo”. È chiaro che lo sviluppo ha un altro ruolo, anche organizzativamente parlando.

Come affronti la competizione delle altre non profit nel corporate fundraising? Quali sono le tue strategie per battere la concorrenza? In altre parole, quali sono i fattori critici di successo nel rapportarsi con il mondo profit?

In mancanza di risorse economiche, l’unica possibilità che un’organizzazione, soprattutto se di medie dimensioni, ha di stare sul mercato delle aziende così come su quello dei donatori è quello di avere un potere di posizionamento chiarissimo. Bisogna essere chiaramente percepibili esternamente come quelli che sono leader sulla risposta a una parte del problema, essere capaci di essere innovativi e proporre le soluzioni vincenti alle stesse aziende in termini di partnership. Questo non significa che finiranno le donazioni da 20.000 o 30.000 euro o che finiranno le donazioni sul singolo progetto, ma, che, se si vuole essere dei leader e si vuole raccogliere denaro, è fondamentale avere le capacità citate. Quindi la strategia rispetto ai competitor è di posizionamento sul mercato, di chiarezza della propria identità e, per altri versi, di capacità d’innovazione. E con ‘innovazione’ mi riferisco, più che al marketing, al saper trovare concretamente la risposta al bisogno, o meglio, al riuscire a offrire una risposta a un bisogno cui nessuno ha provveduto nella stessa maniera.

Quali saranno le nuove frontiere e le nuove sfide del corporate fundraising e in generale nel rapporto profit-non profit?

Nell’ordine: capacità di diventare davvero partner nella risposta ai bisogni, che è la cosa su cui insisto.

Due, capacità di diventare qualcosa di più che sostenitori ma veri e propri stakeholder, anzi addirittura quasi shareholder, nelle sfide di lungo periodo. Questo però richiede per esempio che l’organizzazione abbia chiari quali sono gli obiettivi strategici e la sfida da qui ai prossimi 5 anni e che non parta semplicemente chiedendo una singola donazione su progetto.

Terzo elemento, credo sarà sempre più importante per un certo tipo di aziende riuscire a farsi accompagnare dalle non profit sui social network. Questi infatti sono il nuovo terreno su cui si gioca la visibilità delle aziende oltre che delle organizzazioni non profit – e non solo la visibilità, ma anche la gestione dei servizi, il customer care, la loyalty della clientela. E questo si traduce poi nella capacità di fare innovazione sia in termini di progettualità che in termini di comunicazione.

 

 

A questo indirizzo troverete il blog di Paolo Ferrara:
http://fundraisingnow.wordpress.com/

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