Il contratto di lavoro del fundraiser

Pochi giorni fa ci siamo imbattuti in questo interessante post di Carolina Venturini che nel suo blog parla del contratto di lavoro dei fundraiser italiani. Abbiamo pensato di riproporlo in previsione dell’incontro di mercoledì 21 novembre del gruppo territoriale Lombardia di Assif, durante il quale si discuterà proprio del tema della professione fundraiser e del mercato del lavoro:

 

Qual è il contratto di lavoro a cui può aspirare un fundraiser? Ho posto questa domanda ai community manager che hanno tenuto il workshop sulle donazioni e la loro risposta ha alimentato la mia curiosità. Ho letto un articolo sull’argomento: trattava il lavoro a percentuale. Non paga, ho chiesto un’intervista a un’associazione di settore e spero mi verrà concessa. Vorrei fare chiarezza sull’argomento e  vorrei riuscire a dipanare le nebbie. Quali sono i diritti e quali i doveri? Come ci si può tutelare? Un fundraiser ha diritto alla malattia, alle ferie, alla maternità, alla Legge 104 e, in sintesi, ha diritto a un contratto di lavoro serio (sempre ammesso che esista ancora)?

Le ultime esperienze mi hanno fatto capire che in alcune realtà la figura del fundraiser è vissuta come un “dovuto”. Il semplice fatto di essere un’associazione che tratta i servizi alla persona implica la riverenza e l’accettazione di condizioni lavorative non idonee o rasenti lo sfruttamento spacciato per occasione professionalizzante.

Dando un’occhiata agli articoli online, mi rendo conto che le mie difficoltà sono all’ordine del giorno per centinaia di colleghi, tutti nella medesima fascia d’età, tutti alla ricerca di una definizione professionale decente.

Qualcuno li vede? Qualcuno se ne accorge? A qualcuno importa? 

Le offerte di lavoro come fundraiser si dividono in stage non retribuiti (ovvero volontariato spacciato per impiego) oppure occasioni per cariche manageriali di alto livello.

Chi sta in mezzo, chi vorrebbe poter vivere del proprio lavoro, chi pensa di meritare uno stipendio qualsiasi o un’equa retribuzione, chi vorrebbe dei contributi o anche solo la prospettiva di sopravvivenza per sei mesi, dove si colloca, come si inserisce in questo mercato che attira tanta curiosità, ma ancora non riesce a generare occasioni reali di lavoro? Come si possono riconoscere le offerte serie da quelle mascherate, soprattutto quando queste sono pubblicate nei portali rilevanti del Terzo Settore italiano? E‘ chiedere troppo, il chiedere una tutela dei lavoratori anche da parte di questi stessi organi con sezioni web dedicate all’incontro fra domanda e offerta lavorativa? E’ desiderare troppo, il desiderare che le offerte di lavoro non retribuito e contrattualizzato siano censurate, non accettate, rigettate, rifiutate? 

A volte ho la sensazione che alcune “voci tonanti” del settore non si rendano conto di essere complici nel creare situazioni di illegalità, per le quali l’intervento dell’Ispettorato del Lavoro sarebbe la sola e unica logica scelta consapevole. Essere non profit non significa essere al di sopra del bene e del male. Sapete che cosa mi hanno risposto i community manager del workshop?

La banalità più vera che ci sia: “Un fundraiser non è un procacciatore d’affari quindi non può essere pagato a percentuale perché il lavoro consiste in altro. E’ di tipo impiegatizio e abbisogna di un contratto a tempo determinato, perché l’impegno dura almeno un anno. Ha diritto a uno stipendio fisso perché per raccogliere fondi deve spendersi in tali e tanti ambiti, ogni giorno, full time, che non può che essere pagato mensilmente per il suo contributo (senza il quale nessuna raccolta fondi potrebbe partire).”. Semplice, banale, ovvio e… extra terrestre!  

Leggendo il post di Elena Zanella, fundraiser dalla grande esperienza e umanità, mi sono resa conto di quanto la pretesa di pagare a percentuale sia diffusa. Elena stessa definisce la situazione “allarmante” e ne convengo! Ma scrive anche un’altra cosa e ci tengo a citarla perché la condivido in pieno: “Proporre un lavoro a percentuale nel nonprofit significa infrangere il primo tabù universalmente riconosciuto (…): ovvero, significa anteporre gli obiettivi di business a quelli di tutela del valore della persona.(…) Accettare di lavorare a percentuale significa rendersi complici, in modo inconsapevole, dell’appiattimento del lavoro nel Terzo Settore”.  

A questi commenti molto interessanti, aggiungo anche le riflessioni di Valerio Melandri, fundraiser e blogger, dedicatie all’assenza di cultura dell’investimento e a come questa ignoranza abbia portato allo sfruttamento e all’indebolimento del lavoratore, della professione e dei risultati, in alcuni casi proprio a partire dalla pretesa di pagare in percentuale. Cercando ulteriori commenti sull’argomento, mi sono imbattuta in una offerta di lavoro di Oxfamitalia, datata aprile 2011. All’epoca cercavano un communuty fundraiser da inserire nella sede di Firenze e specificavano la tipologia contrattuale (a progetto) e il compenso lordo annuo (20.000€, ovvero 1666,66 – periodico- euro lordi al mese, per 12 mensilità).  A onor di cronaca, vi segnalo che al momento sono aperte cinque selezioni per lavorare in Oxfamitalia e prevedono un fisso più provvigioni. Sono felice di parlare di loro perché è importante riuscire a far emergere anche queste iniziative.

Certo, manderò loro il curriculum. Nel mentre vorrei conoscere il vostro pensiero e, se siete associazioni, cosa proponete ai vostri fundraiser e quanto prendete in considerazione questa professione che, detto in tutta semplicità, in molti casi vi permette di evitare la chiusura completa.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.