La Cooperazione Internazionale: per una visione disincantata

Etiopia

Quindici giorni non sono sufficienti per farsi un’idea di un bel niente. Quindici giorni sono appena il tempo di “dare un’occhiata”. Ho dato un’occhiata ad Addis Abeba e ho dato un’occhiata a Goba. Ho abbozzato nella mente le prime impressioni sul popolo etiope, anzi su qualche etiope.

Addis

È la stagione delle piogge e tutti i giorni un acquazzone lo fa. La pioggia mi mette di cattivo umore. Cammino per le strade, la gente mi si avvicina costantemente per chiedermi di dove sono, che lingua parlo e cosa faccio li. Tutti vogliono imparare l’italiano, pur non sapendone una parola e tutti hanno tempo di camminare nella mia stessa direzione per distanze interminabili. Questi avvicinamenti mi irrigidiscono e mi infastidiscono. I dialoghi sembrano seguire un copione e io le conversazioni tra estranei le odio già di per se. Alle mie domande, non da estranei, non gli va di rispondere, e chi li biasima?

La gente sembra in un incessante fiume, a parte gli storpi, costretti a stare fermi. Fanno l’elemosina agli angoli della strada. Spesso “dormono” sotto dei cartoni e io mi chiedo se siano vivi o meno. E se quando non lo sono qualcuno si prende la briga di sotterrarli o se li buttano via nella spazzatura, cosa che sarebbe più in linea con il trattamento che ricevono in vita. Io sono la “ferengi”. La bianca, la ricca. Chiedo quale autobus passi per Meskel Square. La spiegazione inizia in un inglese elementare, poi una pausa. “But maybe you want a taxi, it’s not expensive for you”. No. Non lo voglio un taxi. È possibile non prendere un taxi in questa città anche se sono bianca? È possibile camminare per questa città senza dover necessariamente spiegare ogni tre minuti che non lo voglio quel taxi? Lo spirito è contrastato, vorrei essere entusiasta e curiosa. E invece sono estremamente infastidita dall’immagine di me negli occhi delle persone con cui fluttuo per la città.

Dopo pochi giorni le persone della via dell’ufficio si sono già abituate alla nuova bianca e non badano più a me quando passo di li. I bambini ancora un po’ si. Ridono e mi scherniscono. E i ragazzini mi gridano “You’re beautiful, I love you”. Di nuovo vorrei avere una reazione diversa, di nuovo vorrei che il mio spirito fosse lo stesso del Perù e invece mi limito a dare occhiatacce a questi marmocchi sfacciati e a continuare per la mia strada da ferengi.

Goba

Viaggio lungo, ma non tanto male. La compagnia è un misto di persone il più possibile diverse tra loro e le conversazioni che scaturiscono sono un vaneggio generale, per cinque giorni. Ancora una volta sono oggetto di curiosità, ma ora non mi da fastidio, ora lo percepisco come un sincero desiderio di approfondire alcune cose che si sono solo sentite nominare nella vita. La mafia. Berlusconi. Il Vaticano. Le famiglie allargate. L’omosessualità. Il sistema sanitario. Il sistema scolastico.

Quello che mi interessa di più è lo scambio sul concetto di famiglia. La religione, ortodossa e musulmana, in questo Paese impregna ogni pensiero e ogni parola, in un assoluto equilibrio tra loro e una naturale convivenza (naturale convivenza che sono costretta a riconoscere, dopo tutto il lavoro dei media per farmi pensare che di naturale nella convivenza tra religioni non ci sia un bel niente). La famiglia ne é il risultato più diretto. “Senza Dio e senza famiglia un uomo non sa che fare e non sarà mai un bravo uomo. Io vado a lavorare e faccio del mio meglio perché so che lo faccio per la mia famiglia. Se lo facessi solo per me stesso non lo farei altrettanto bene e non ci andrei quando non ne ho voglia. È per la mia famiglia che sono una brava persona.” Non credo in Dio e non credo nella famiglia eppure anche io sono una ‘brava persona’. Ma questa traduzione dell’insegnamento religioso mi è piaciuta, nella sua essenza di dimostrazione di rispetto e impegno. Da qui il passo a condannare tutto ciò che non rientra in questi canoni è breve.

L’omosessualità è punita con 20 anni di carcere. Immagino quindi che sia un bel po’ nascosta, giustamente. Gli uomini etiopi sono molto corporali tra di loro e camminando spesso sono mano nella mano, a braccetto, abbracciati. Non credo sia troppo difficile in uno scenario del genere nascondere un gesto più affettuoso di un altro. Eppure pare che l’omosessualità sia una devianza che appartiene solo ai ricchi, annoiati di tutto ciò che hanno e sperimentano. Pare anche però che con un po’ di lavoro si possono riportare alla normalità e si possa far capire loro che la natura vuole che ci riproduciamo. E più siamo meglio è. E quando ci si scontra con questo come si lavora? La gente fuori dalla nostra macchina cammina. Dove vanno? Camminano lenti e regolari, di nuovo come in un fiume incessante.

I rapporti istituzionali

Parlare con i medici, con il direttore dell’ospedale, con il direttore dell’ufficio di zona della sanità e difficile. L’inglese è stentato e il distacco che si pone nel dialogo è fortissimo. Le formalità, le moine prima di arrivare al dunque sembrano interminabili. Dalla mia presenza ci si aspetta una risoluzione definitiva, un risposta alle domande. È il colore della mia pelle. La risposta ad ogni problema è facile dal loro punto di vista: soldi. Mi rendo conto che senza farne parte e senza volerlo più di tanto sto rappresentando qualcosa e qualcuno. “Qualcosa” che prima di me li in quel momento ha dato la risposta che loro vogliono. E ora ci si sente legittimati a pretendere la stessa risposta. A pretendere dall’ “invasore” che paghi il suo pegno per essere li a impicciarsi di affari non suoi.

Cosa fa la cooperazione? Cosa ci fanno tutte queste ONG nei paesi in via di sviluppo? Quanto bisogna mediare? Quanto bisogna accettare? Ogni singolo giorno le persone che ho visto lavorare in quest’esempio di una ong che cerca di fare il suo lavoro al meglio devono affrontare una quantità incredibile di imprevisti e confrontarsi con una burocrazia che risente del carattere più diffuso nel Paese: un carattere fiero, orgoglioso, molto permaloso. Un mondo che si scontra con gli excel da ragionieri, con le programmazioni settimanali e con i preventivi di spesa. Tanti ospedali aperti, tante persone salvate, curate. Tanti bambini fatti nascere vivi. Tanti bei rattoppi che i singoli non finiranno mai di ringraziare.

Ma… alla fine di tutto ciò, alla gente quanto torna? Tutta questa operosa e incessante macchina quanto migliora la vita degli ospitanti, dopo essersi arrogati il diritto di ovviare a carenze altrui? Quanto l’azione umanitaria toglie all’azione politica? E quanto la lezione politica può essere impartita dai ricchi Stati benestanti del Nord? Singolarmente preferisco di certo l’idea di passare la vita a lavorare in questo mondo per quanto possa non portare da nessuna parte, che nell’odioso mondo del profitto, della produzione, della vendita.

L’esito dei progetti dipende in enorme misure dalle persone che lo guidano. Di conseguenza la qualità del lavoro di una ong dipende da quanto questa sia in grado di captare persone valide e di tenerle legate a sè.

 


Noemi Bertolotti, che ha lavorato per il CCM a Torino, ha svolto una missione di supporto amministrativo ai progetti in Etiopia. L’articolo è del 2012.
Tratto da http://www.ccm-italia.org/ su concessione dell’autrice.

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