“Contro il non profit” di Giovanni Moro

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Il non profit nell'opinione pubblica è sinonimo di solidarietà ed altruismo. Il “terzo settore”, come viene definito tutto ciò che non appartiene alle due categorie di mercato e Stato, in Italia, comprende oggi 301.191 istituzioni, 1 milione circa di lavoratori, 4,7 milioni di volontari e quasi 80 miliardi di euro di entrate (corrispondenti al 3% del Pil).

All'interno di questa categoria convivono esclusivi circoli sportivi e centri per disabili, università private e centri di riabilitazione per ex detenuti. Da quando, nel 1997, è entrata in vigore  la legge Zamagni la parola Onlus, con l’alone positivo di cui è circondata e tutti i benefici fiscali che comporta, definisce una tipologia di attività vaga e quindi spesso strumentalizzata.

In Contro il non profit, il sociologo politico Giovanni Moro spiega ed analizza in maniera puntuale questo ‘magma’ caotico di norme e definizioni opache caratterizzato solamente per esclusione (“non” profit).  E’ infatti la stessa origine del fenomeno, secondo l’autore, a determinarne la natura confusa.

Il titolo polemico potrebbe essere fuorviante perché lo studioso non critica tout court il «terzo settore» ma ne descrive difetti e pregi. «Non potrei proprio essere contro questo tipo di non profit - scrive il sociologo, figlio dello statista Aldo Moro ucciso dalle Brigate rosse nel 1978 - perché in un modo o nell'altro tutta la mia vita a questo è stata dedicata». Moro oltre a occuparsi della materia come studioso ha guidato, tra il 1989 e il 2002, il movimento Cittadinanzattiva e ora presiede Fondaca, un think tank neanche a dirlo non profit.

Il volume, invece, mette all'indice quel non profit che dietro questa parola nasconde uno spazio «in cui un po' tutto è possibile, dai ristoranti alle palestre, dalle cliniche alle polisportive con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali, conflitti di interesse, elusione fiscale, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri più poveri, "buoni" che legittimano vantaggi per i "cattivi"».

Considerato con orgoglio come un prodotto italiano figlio delle associazioni caritatevoli del Medioevo, il concetto risale invece al secolo scorso: una “debole invenzione” di alcuni ricercatori americani degli inizi degli anni ’90. Questa vacuità teorica è il punto di partenza del libro che non intende essere una critica indistinta delle Onlus, molto di moda negli ultimi anni, ma piuttosto uno stimolo al dibattito e alla loro riscoperta.

Scrive l’autore:  “Mentre le rappresentazioni correnti attribuiscono comportamenti auto-interessati o di pura convenienza a cadute o deviazioni di carattere morale, la mia convinzione è che questi comportamenti, stridenti con un senso comune che attribuisce al «terzo settore» virtù intrinseche, siano invece impliciti nella stessa concettualizzazione del non profit, oppure ne siano una conseguenza logica e materiale”.

Com'è possibile che entità di fatto simili ad imprese private ma rese più competitive grazie alla falsa caratterizzazione convivano con le organizzazioni che si occupano della parte più debole della società? A questo proposito Moro cita dati disponibili a tutti, ma spesso ignorati, con l’intento di individuare gli attributi e restituire i privilegi del terzo settore a chi davvero ne segue i principi e di mettere in luce la mercatizzazione delle imprese cosiddette ‘sociali’.

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